Sequestro crediti Superbonus nullo se non adeguatamente motivato
Da sempre, una delle questioni più discusse nell’ambito dei bonus edilizi, soprattutto del Superbonus, riguarda i profili di responsabilità di colui che riceve il credito d’imposta tramite cessione o sconto in fattura.
Cessione del credito e responsabilità
Il beneficiario dei bonus, infatti, è il primo “proprietario” di un credito la cui titolarità può essere trasferita, generando una situazione complessa nel caso in cui si rilevino irregolarità nelle pratiche edilizie che lo hanno generato. Perciò, il legislatore ha introdotto una normativa apposita con il D.L. n. 11/2023 (Decreto Cessioni), che fa salvo il cessionario dalla corresponsabilità negli illeciti, purché sia in possesso di un lungo set documentale che riguarda gli interventi.
Ma cosa ne è dei crediti d’imposta che giacciono nel cassetto fiscale del terzo, nel malaugurato caso in cui questi siano ritenuti indebitamente fruiti dal cedente? Sul tema, sono state emanate di recente due importanti sentenze, che permettono di comprendere in che modo la giurisprudenza sta maturando per definire simili situazioni. La sentenza n. 3108 della Cassazione dello scorso 24 gennaio, nel dettaglio, spiega che i crediti posseduti dal cessionario, sempre che siano “illegali”, possono essere sequestrati, anche se il possessore non ha alcuna responsabilità nel reato. Ma il quadro risulta meglio chiarito da una pronuncia di pochi giorni fa (Cassazione, sentenza n. 7021 del 15 febbraio 2024) con la quale la Suprema Corte ha annullato il sequestro dei crediti, poiché la motivazione che lo supportava non era abbastanza scrupolosa.
Per quanto lo sventurato (e ignaro) acquirente di crediti percepiti illegittimamente dal cedente possa subire il sequestro delle somme, dunque, le modalità per disporlo sono delle più rigide, essendo necessario a tal fine che il giudice fornisca una motivazione dettagliata.
Sequestrabilità
Come accennato, anche se il cessionario ha fatto “tutto per bene”, egli potrebbe aver acquistato dei crediti fittizi, e potrebbe dunque subire il sequestro delle somme. Infatti, per quanto la normativa non lo riconosca come responsabile delle frodi, il cessionario riceve un credito che, secondo la giurisprudenza che si è espressa finora, rappresenta una “cosa pertinente al reato”.
La sentenza della Cassazione n. 3108/2024, nel dettaglio, ha espresso tale principio rispondendo a una banca che si è vista sequestrare circa 27 milioni di euro di crediti. Infatti, erano stati contestati a vari soggetti i reati di truffa e di autoriciclaggio, per condotte illecite consistite nella mancata esecuzione di lavori ammessi al Superbonus, tramite false asseverazioni e fatturazioni. Secondo la banca, però, il periculum in mora (vale a dire la possibilità di effettuare ulteriori operazioni illecite che deve sussistere per poter disporre un sequestro), poteva riferirsi solo agli indagati e non a sé stessa, “in mancanza di specifica motivazione sul pericolo derivante dalla disponibilità dei crediti ceduti, specie in considerazione di quanto disposto dall’art. 121, dl 34/2020 che limita la responsabilità del cessionario alle ipotesi di utilizzo irregolare del credito o di concorso nella violazione”. Ma la Suprema Corte non condivide tale ragionamento, e conferma la correttezza del sequestro.
Infatti, i crediti acquisiti da un terzo “costituiscono cose pertinenti al reato, senza che rilevi la condizione soggettiva di detti terzi, in conformità alle norme processualpenalistiche”. In sostanza, il sequestro di cui all’art. 321, co. 1, c.p.p. richiede l’esistenza di un nesso pertinenziale tra la cosa e il reato, ossia “un collegamento che comprende non solo le cose sulle quali o a mezzo delle quali il reato è stato commesso o che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche quelle legate solo indirettamente alla fattispecie criminosa”. E ciò, in sostanza, a prescindere da chi possieda la cosa e per quale motivo, e dunque a prescindere dall’estraneità del “possessore” rispetto al reato.
Il nesso va provato
La sentenza appena ripercorsa non solo chiarisce che il sequestro dei crediti dal cassetto fiscale del cessionario è lecito, ma soprattutto segnala le condizioni di detta liceità. Si riferisce, infatti, al “nesso di pertinenzialità”. Ebbene, non sempre tale nesso è evidente, come dimostra la sentenza n. 7021 emanata dalla Corte di Cassazione lo scorso 15 febbraio, e soprattutto è da dimostrare.
La Suprema Corte, in questo caso, ha annullato il sequestro imposto a un’impresa edile che aveva ricevuto i crediti applicando lo sconto in fattura. Nel dettaglio, i crediti sono maturati su pratiche edilizie riguardanti oltre 100 cantieri, nei quali sono stati eseguiti interventi agevolabili con Superbonus su varie villette. Un giudice per le indagini preliminari, però, ha rilevato delle irregolarità tali da rendere i crediti d’imposta “apparenti”, generati cioè da operazioni inesistenti, relative ad interventi mai eseguiti. Nel dettaglio, l’impresa viene accusata di aver falsamente certificato la realizzazione del 30% dei lavori al 30 settembre 2022, requisito necessario per fruire del Superbonus per i lavori sulle villette fino al 31 dicembre 2023 (dl 34/2020, art. 119, co. 8-bis). Così, il Gip aveva disposto il sequestro di tutti i crediti, contro il quale la società presentava istanza di dissequestro, rigettata con ordinanza del tribunale. Tale ordinanza viene allora impugnata in Cassazione, giungendo alla pronuncia menzionata, con la quale la Suprema Corte annulla il sequestro considerando la “motivazione carente e, a tratti, meramente apparente”.
Il tribunale che ha ordinato il sequestro, infatti, ha deciso sulla base delle dichiarazioni rese dai proprietari di alcune villette, che riferivano di non aver ricevuto le opere. Tuttavia, spiega la Cassazione, ciò non basta a giustificare un sequestro, poiché “anche a voler presumere che i proprietari escussi rappresentino i cedenti dei crediti d’imposta vantati dalla società, il tribunale ha comunque omesso di motivare sulle ragioni per cui ha ritenuto che da tali dichiarazioni possa desumersi la falsità della totalità delle operazioni […] posto che, come affermato dalla stessa ordinanza impugnata, i proprietari escussi a sommarie informazioni rappresenterebbero solo una parte dei cantieri”.
L’intoppo, insomma, è rappresentato proprio dal fatto che i giudici hanno “omesso di argomentare in ordine al nesso di pertinenzialità tra detti crediti e le contestate condotte di falso”, disponendo il sequestro “senza una puntuale ricostruzione del meccanismo fraudolento addebitabile ai ricorrenti in relazione a ciascuna cessione”.
Sequestro selettivo
In definitiva, ogni situazione ha le sue peculiarità, e soprattutto in relazione a cantieri estesi, non è detto che un’irregolarità possa investire la totalità delle somme ricevute tramite cessione. Come dimostra la sentenza illustrata, cioè, nel disporre il sequestro in capo al cessionario è necessario evidenziare “le specifiche ragioni per le quali (il credito, ndr.) debba considerarsi fittizio, se per l’inesistenza del rapporto negoziale sottostante ovvero per la falsa attestazione di realizzazione del 30% dei lavori”.
E soprattutto, una volta ricostruite compiutamente tali ragioni, è necessario riferirle a ciascun credito d’imposta ceduto. Se, nell’ambito di un’operazione di cessione complessa, solo alcuni di questi risultano fraudolenti, il giudice non può in alcun modo sequestrarli integralmente, ma dovrà procedere a un’operazione di “selezione” accurata.